Prof. Stefano Fabei, lei è docente di ruolo di Discipline letterarie all’I.I.S. ‘Giordano Bruno’ di Perugia, oltre che un saggista e un acuto studioso di Storia, specie di quella contemporanea. Il libro che intendiamo presentare, Armando Rocchi: il Prefetto del Duce a Perugia. Storia di un soldato dalla Grande Guerra alla Repubblica Sociale Italiana, edito nel 2023 per i tipi di Futura Libri, reca un titolo eloquente, che orienta alla lettura, guidandola. Lei nel 2022 si è occupato, ancora una volta, del prefetto Rocchi (il riferimento è a Il prefetto Rocchi e il salvataggio degli ebrei. Perugia-Isola Maggiore sul Trasimeno 1943-1944): come si sono originati il progetto e il suo interesse per questa controversa figura della nostra Storia e della Storia tutta?
Rocchi è stato senza dubbio un protagonista della storia locale il cui ricordo in molti suoi contemporanei, non tutti per la verità, è legato soprattutto ai drammatici eventi relativi al periodo in cui ricoprì la carica di Prefetto, durante la Repubblica sociale italiana, che in Umbria durò circa otto mesi tra il 1943 e il 1944. Tuttavia egli fu anche altro: un soldato del XX secolo che per circa trenta anni visse drammaticamente – ma anche consapevolmente e sempre convintamente – l’esperienza dei due conflitti mondiali e della guerra civile spagnola. Tutta la sua esistenza fu caratterizzata da una concezione della vita improntata al senso del dovere e al culto della patria. Volontario, sottotenente di cavalleria nel 1917, combatté sul fronte albanese e qui iniziò, con una grave ferita al palato e alla mandibola (frattura doppia, con asportazione parziale della lingua, di sei denti e con lesione funzionale all’orecchio destro), una collezione di mutilazioni, testimonianze del grande coraggio e della determinazione sempre dimostrati. Consacrò così, con il sangue, una visione del mondo che aveva le sue premesse e fondamenta nella preparazione culturale ricevuta a casa e a scuola, basata sugli ideali risorgimentali e patriottici: valori lontani dagli attuali ma che devono essere tenuti ben presenti se si vuole inquadrare e comprendere il personaggio e tutto il suo percorso esistenziale, militare e politico.
Ciò premesso, all’idea di scrivere questa biografia sono arrivato per gradi. Circa venti anni fa stavo raccogliendo all’Archivio storico dello Stato Maggiore dell’Esercito la documentazione per un saggio sui cetnici, i nazionalisti serbo ortodossi che avevano collaborato con gli italiani nell’area balcanica (I cetnici nella Seconda guerra mondiale, LEG, 2006, presentato al Festival della Storia di Gorizia nello stesso anno, è stato ristampato nel 2017 con riferimenti e integrazioni allo smembramento della Jugoslavia e alle guerre successive fino al tramonto di Slobodan Milošević), quando mi imbattei per caso nel nome di un ufficiale della Milizia comandante del CII battaglione, che aveva combattuto in Jugoslavia inquadrato nella 108ª legione Camicie nere d’assalto dal 1941 al 1943: Armando Rocchi. Allora rammentai di averne sentito parlare negli anni Settanta da alcuni ex soldati di Passignano che ricordavano di essere stati in Montenegro agli ordini di quel «fegataccio» capace di qualunque audacia, il quale, al contrario della gran parte degli ufficiali del Regio Esercito, era stato sempre in testa ai suoi militi durante gli attacchi, di sprone ed esempio. In seguito sono venuto a conoscenza del fatto che, rientrato in Italia nel primo semestre del 1943, e diventato Prefetto di Perugia durante la repubblica mussoliniana, aveva creato i presupposti per il salvataggio – poi attribuito ad altri – degli ebrei internati che aveva deciso di «nascondere» al castello dell’Isola Maggiore sul Trasimeno.
Nella presentazione, che reca la firma del Prof. Alberto Stramaccioni, docente di Storia contemporanea all’Università per Stranieri di Perugia, si legge: «(…) ho trovato confermata e aggravata, in una diffusa storiografia resistenziale, l’immagine di un uomo violento noto soprattutto per aver gestito senza scrupoli la repressione del movimento partigiano in Umbria, dopo aver partecipato alla guerra civile spagnola e segnalatosi in Jugoslavia con l’accusa di criminale di guerra dell’Esercito italiano (…)». Lei pensa di aver ricostruito, con gli strumenti e la metodologia propri della ricerca storiografica, l’esperienza di un soldato novecentesco, che è pur sempre stato uno dei protagonisti della Storia italiana contemporanea?
Una certa memorialistica e la storiografia resistenziale hanno sempre rappresentato Rocchi come scrive il Prof. Stramaccioni. Definito di volta in volta spregiudicato, fanatico, nevrastenico, poco intelligente, facinoroso, delinquente, masnadiero squilibrato e sanguinario, orribile anche nel fisico, soltanto su un punto l’uomo nero – così, pare, venisse indicato nel secondo dopoguerra a Perugia – è risultato avere messo tutti d’accordo: la sua onestà. Che fosse poi un uomo molto rigido sempre e comunque, prima di tutto con se stesso, nell’ambito militare come in quello familiare, è fuori discussione. Non è vero tuttavia che non ridesse mai come dimostra la documentazione fotografica conservata nel fondo Rocchi Armando presso l’Archivio di Stato perugino, relativa per lo più al 1941, ovvero all’esperienza di comandante del CII battaglione Camicie nere d’assalto nella fase di addestramento in Italia, trasferimento e permanenza in Montenegro e Dalmazia. In mezzo ai suoi legionari appare quasi sempre sereno e sorridente, quasi felice di andare per la terza volta a combattere…
Rappresentazioni, anche fotografiche, più o meno demonizzanti a parte, occorre fare sempre riferimento al contesto. La RSI era quello che era, e Rocchi lo sapeva: l’ultima battaglia del fascismo, da combattere senza farsi illusioni ma per coerenza e fedeltà all’alleato al cui fianco gli italiani erano entrati in guerra e al cui fianco dovevano restare. Doveroso, dal punto di vista morale, politico e militare, gli sembrò il rispetto dei patti sottoscritti, soprattutto dopo l’esperienza devastante per l’Italia dell’armistizio con tutto ciò che questo aveva comportato per la patria e per le sue forze armate. Era una scelta compiuta, e da compiersi, sulla base dell’onore, a prescindere da tutto il resto. Ai tedeschi – che lui ammirava pur non amandoli – Rocchi apparve quindi come l’uomo ideale per ricoprire la massima carica nella provincia di Perugia: ne conoscevano il coraggio, la lealtà e la durezza… E poi non è che ci fosse un’alternativa o la possibilità di scelta attingendo magari tra le principali figure del fascismo locale: Giuseppe Bastianini il 25 luglio aveva votato l’ordine del giorno Grandi, di cui era stato promotore, durante l’ultima seduta del Gran consiglio del fascismo; Tullio Cianetti si era comportato nello stesso modo, pur ritrattando alcune ore dopo la scelta fatta con una lettera a Mussolini; Fernando Mezzasoma dal 23 settembre 1943 era Ministro della Cultura Popolare del Governo fascista repubblicano; Oscar Uccelli il 1º ottobre aveva assunto l’incarico di Capo della Provincia a Milano.
Di sicuro Rocchi non godeva della notorietà dei suddetti, appartenendo alla seconda o addirittura alla terza fila della gerarchia fascista e non avendo ricoperto rilevanti ruoli politici, ma offriva ottime garanzie militari. Lui, che riteneva l’intransigenza in quel momento un atto di fede, ricoprì quindi la carica di Prefetto del capoluogo umbro dal 25 ottobre al 16 giugno 1944; non ‘con polso d’acciaio’ come fu detto esagerando, ma senza dubbio con molta determinazione, tra mille difficoltà e l’esigenza di barcamenarsi tra l’ingombrante alleato-padrone germanico e i puri della spesso critica Federazione fascista repubblicana.
Uomo d’ordine, accettata la carica di Capo della Provincia (titolo attribuito dalla RSI, per la durata della guerra, al Prefetto, inteso come depositario del comando politico e amministrativo, essendo al vertice tanto della Prefettura quanto della Federazione fascista), non poté fare altro che applicare le leggi, rivelandosi in certi casi molto duro con disertori, imboscati e renitenti alla leva, in altri indulgente con quanti accettavano di rientrare nella legalità. Nonostante l’attribuzione, diretta o indiretta, a lui di molti funesti episodi, che non avrebbe potuto comunque evitare, o dei quali fu costretto a rispondere in quanto Prefetto, a Rocchi si deve il salvataggio degli intellettuali antifascisti presenti a Perugia e salvati dalla cattura e dall’internamento anche per evitare la guerra civile. Deciso a controllare tutto, per scongiurare quest’ultima cercò addirittura di dialogare e raggiungere accordi – come d’altra parte fecero i tedeschi – con alcuni comandanti partigiani.
Lasciata Perugia a metà giugno del 1944, Rocchi operò al Nord ricoprendo le cariche di Prefetto a disposizione del Ministero degli Interni dal 10 luglio al 25 agosto 1944, di capo del quartier generale dello stesso dicastero a Maderno, e di Commissario straordinario del Governo per l’Emilia e la Romagna dal 26 agosto 1944 al 26 aprile 1945. In questo ultimo ruolo, in un contesto molto più drammatico di quello umbro – per la maggiore capacità militare delle locali formazioni della Resistenza, meglio organizzate ed equipaggiate dagli Alleati, e per la presenza delle Brigate Nere, formazioni ausiliarie del Partito fascista repubblicano volute da Alessandro Pavolini per compiti di antiguerriglia e per la difesa dei fascisti e delle loro famiglie – Rocchi dovette svolgere perfino un’attività ‘moderatrice’ tra i suoi. Ciò lo rese spesso inviso non soltanto alle BBNN bensì anche ai vertici locali della GNR, arma di cui egli stesso era ufficiale, essendo già nei quadri della MVSN. Per lui la legalità dello Stato doveva essere rispettata da tutti, e prima di tutto dai fascisti, vittime in quel momento di un continuo stillicidio di sangue: obiettivo questo tutt’altro che facile da raggiungere.
Quanto alle accuse di essere stato un criminale di guerra, responsabile di torture, sevizie, fucilazioni e indicibili atrocità nella penisola di Sabbioncello, nella Dalmazia meridionale, accuse in base alle quali il governo jugoslavo avrebbe voluto processare Rocchi, va detto che si basarono, fra l’altro, sulle dichiarazioni rilasciate dal colonnello Faraone e dal generale Arnaldo Rocca, ufficiali del Regio Esercito rivelatesi imprecise quando non del tutto errate alla Commissione d’inchiesta italiana che aveva raccolto la documentazione per comprovarle. Le affermazioni dei suddetti ufficiali si spiegano con la loro volontà di prendere le distanze, una volta caduto il fascismo, dalla Milizia con cui avevano, spesso obtorto collo, collaborato, obbedendo agli ordini. La conflittualità tra esercito e MVSN era peraltro nota, come la maggiore motivazione politica e determinazione al combattimento dei legionari di Mussolini.
La guerra nei Balcani aveva inoltre comportato tutta una serie di crudeltà e di eccessi non solo da parte degli italiani, in grigioverde o in camicia nera, contro le popolazioni locali, ma anche da parte di queste contro gli invasori. Alla fine, per tutta una serie di motivi come le eccezioni giuridiche mosse dalle autorità italiane per evitare la consegna dei propri criminali di guerra e per l’indisponibilità del governo di Belgrado ad accettare il principio della reciprocità, ovvero che la suddetta commissione si occupasse anche dei crimini compiuti dagli jugoslavi nei confronti delle forze armate italiane, non se ne fece niente. Dopo i primi rinvii a giudizio tra il 1946 e il 1947 riguardanti indagati eccellenti, come Roatta, Robotti, Bastianini e Pirzio Biroli, nel 1951 la questione dei presunti criminali di guerra fu archiviata e la Commissione interruppe il proprio lavoro.
Io ritengo di aver ricostruito in modo obiettivo l’esperienza di Rocchi attingendo in maniera critica alle fonti di entrambe le parti, facendo la tara alle testimonianze rilasciate sia dai vincitori sia dai vinti la cui narrazione è stata sempre o quasi ignorata. Come ho scritto nel libro, una cosa è la ricostruzione dei fatti storicamente parlando, altra cosa è il giudizio sui protagonisti e sulle loro posizioni politiche. Esiti processuali a parte, va considerato che gli sconfitti, come i trionfatori, ritengono nella maggior parte dei casi di aver combattuto dalla parte giusta e ognuno dà una propria interpretazione degli avvenimenti; di ciò deve tenere conto lo storico estraneo a interessi politici di parte.
Armando Rocchi – si apprende dalla quarta di copertina – scriveva di sé: «Io non sono né un mostro né un angelo. Io non faccio che il mio dovere… Ricevo degli ordini che debbo eseguire personalmente, e fare eseguire dagli altri». Come commenterebbe questa affermazione, anche alla luce di ciò che lei dichiara nell’introduzione al volume, ovvero: «Non escludendo che questa biografia possa indurre qualcuno a ritenerla giustificatoria e a supporre una simpatia dell’autore nei confronti del personaggio, a scanso di equivoci e per chiarezza circa il metodo di indagine adottato è necessaria una premessa. È mia convinzione che compito dello storico non sia condannare o assolvere (…), bensì avvicinarsi il più possibile alla verità contribuendo a far luce su tutti i fatti, compresi quelli che possono risultare sgraditi alle legittime posizioni politiche di ciascuno»?
Su quanto Rocchi scrisse non ho niente da dire in quanto è già molto chiaro: rappresenta la percezione che l’uomo ebbe sempre di se stesso. Ribadisco ciò che affermai in quella sorta di previsione rivelatasi azzeccata. Alcuni mesi fa, nel corso di una presentazione del libro edito da Mursia sul salvataggio degli ebrei (saggio presentato da Giuseppe Severini e introdotto da Franco Cardini, entrambi uomini di cultura seri e obiettivi, come Stramaccioni e Varasano) una persona mi disse che la figura del Prefetto, una sorta di incarnazione del male, non era degna di narrazione, intendendo forse di una narrazione diversa da quella consolidata nel tempo, dalla vulgata come la definiva Renzo De Felice.
Quello che io ho scritto è supportato dai documenti. Ho consultato le varie fonti, di entrambe le parti e non di una soltanto, come fatto in precedenza da altri. Per prima cosa ho letto, studiato e riportato, citandolo spesso nelle note e nella bibliografia, quanto già prodotto sull’argomento, in primis le fonti resistenziali. Secondo Angelo Del Boca «sottoporre a revisione la storia è il compito stesso degli studiosi, essendo la storiografia nient’altro che una costante riscrittura della storia». Alla luce di questo insegnamento, di un uomo che prima di parlare della Resistenza l’ha fatta di persona, ho cercato di avvicinarmi il più possibile alla verità: quella assoluta, dogmatica e indiscutibile la lascio agli integralisti di ogni risma.
L’indice conoscitivo del libro è vastissimo – si compone, infatti, di 23 capitoli, corredati dalle già citate presentazione e prefazione, da un inserto fotografico e da un corredo di apparati –: a noi interesserebbe soffermarci, insieme a lei, sull’amicizia con gli ebrei, sui contatti dello stesso Rocchi con i comandanti partigiani, sulla sua non facile collaborazione con i tedeschi. Capitoli, questi, che, se è corretta la nostra interpretazione, restituiscono tutta la complessità di un secolo e, conseguentemente, di ‘un uomo del suo tempo’…
Rocchi aderì alla RSI malgrado i suoi sentimenti filosabaudi e, ripeto, perché indignato, più che dal tradimento monarchico del 25 luglio 1943, dallo sfacelo determinato dall’armistizio. Accettata la carica, per la quale forse non era vocato, di Capo della Provincia, s’impegnò a controllare il territorio, a contrastare la diserzione e la renitenza alla leva, a lottare contro i partigiani collaborando non sempre facilmente con i tedeschi dei quali ammirava la disciplina e la preparazione militare ma che non aveva in simpatia probabilmente per ragioni riconducibili alla sua formazione culturale.
Del fascismo repubblicano Rocchi non condivise le misure antisemitiche, perché come molti altri fascisti non era razzista. Sapeva che la percentuale di ebrei iscritti al PNF era stata superiore a quella degli italiani e che alcuni ebrei figuravano tra i fondatori dei Fasci di combattimento a Milano nel marzo del 1919, mentre altri fino all’emanazione delle leggi razziali avevano contribuito alle fortune del regime. Livia Coen e Ada Saralvo, tanto per citare due delle ebree salvate da Rocchi, erano state fin dall’inizio ferventi fasciste, impegnate convintamente ed entusiasticamente nelle strutture del regime. Esistevano pertanto anche rapporti di conoscenza e di cameratismo che influirono nelle decisioni operate dal Capo della Provincia tra il 1943 e il 1944. Ciò premesso, non meraviglia che al contrario di quanto sostenuto ancora oggi da molti, il salvataggio degli ebrei sia stato prima di tutto opera sua e del questore Baldassarre Scaminaci, coadiuvati nella parte finale dell’operazione dall’agente della Pubblica Sicurezza Giuseppe Baratta.
Rocchi, per salvare dalla deportazione, pretesa dai tedeschi, oltre trenta ebrei, italiani e stranieri che non si erano nascosti malgrado fossero stati avvertiti, per volontà sua, delle misure previste dalla Direttiva n. 5 del 30 novembre 1943, li internò prima a Villa Ajò e all’Istituto magistrale, quindi nel maggio del 1944 al castello, o Villa Guglielmi, dell’Isola Maggiore. Qui furono affidati al controllo del seniore della Milizia Luigi Lana e di circa una dozzina di giovani ausiliari ai suoi ordini.
Quando l’11 giugno 1944 Lana ricevette, forse dal Segretario generale del Commissario prefettizio al Comune di Perugia, Enrico Armanni – cui Rocchi il giorno precedente aveva accordato, accogliendone la richiesta verbale, un mese di licenza con decorrenza immediata –, un fonogramma con l’ordine di consegnare ai tedeschi gli ebrei affidati al suo controllo, decise di non obbedire, disponendo che questi si nascondessero mescolandosi ai pescatori e alle loro famiglie. Raccomandò inoltre agli agenti ausiliari di mantenere la calma, in attesa del passaggio del fronte, ma tre di loro decisero di disertare e raggiungere i partigiani: forse comunicarono, o avevano già comunicato, con una radio ricetrasmittente le proprie intenzioni al gruppo di resistenti che, guidati da Piero Marchettini, avevano la propria base fra Sanfatucchio e Pucciarelli. La notte del 12 giugno tre o quattro ebrei accettarono di fuggire con le suddette guardie che, entrate nella Resistenza il giorno prima, erano tornate a Villa Guglielmi per liberare i confinati affidati al loro controllo soltanto poche ore prima. Seguirono alcuni giorni drammatici per gli isolani alle prese con i tedeschi i quali, se fino a quel momento si erano comportati da ‘amici’, assunsero un atteggiamento di aperta ostilità per il sospetto che sul luogo si trovassero dei partigiani e per la conseguente ricerca di strumenti ricetrasmettitori nelle loro mani.
Altri ventidue ebrei internati raggiunsero Sant’Arcangelo, dove erano appena arrivati gli inglesi, nelle notti del 19 e del 20 giugno 1944, grazie a don Ottavio Posta che con il poliziotto Baratta e con l’assenso di Lana, ne organizzò il traghettamento affidato a quindici pescatori.
Il merito dell’operazione nel corso del dopoguerra se lo sono attribuito i partigiani dell’ultimo minuto, quelli del trasferimento del primo gruppo di confinati. Si trattava di ragazzi locali, in età di leva, appartenenti al Corpo degli agenti della PS. In seguito al Bando Graziani del 18 febbraio 1944, per evitare l’invio al fronte, si erano fatti arruolare come ausiliari nel suddetto corpo e, su raccomandazione del seniore della GNR Augusto Castellani, di Castiglione del Lago, erano stati addetti al servizio di vigilanza ferroviaria sul tratto Terontola-Chiusi prima di essere inviati a Isola Maggiore per sorvegliare, agli ordini di Lana, gli ebrei lì trasferiti. Al momento opportuno abbandonarono la camicia nera per indossarne una di diverso colore e fare gli eroi, ma ancora oggi c’è chi li celebra come tali, fingendo d’ignorare che su di loro ha sempre gravato il sospetto di aver portato via dall’isola il primo gruppo di internati con cui «si erano accordati a scopo di lucro» secondo quanto relazionato, dopo il passaggio del fronte, al vescovo di Perugia, monsignor Vianello, dal parroco di Isola Maggiore, don Posta, cui nel 2011 Israele ha riconosciuto il titolo di Giusto tra le Nazioni, grazie all’impegno di Gianfranco Cialini. Il dubbio sulla non gratuità del traghettamento del 12 giugno 1944 permane ancora, come confermatomi alcuni mesi fa da una persona vicina alla comunità ebraica e all’Associazione Italia Israele di Perugia.
Cialini nel maggio del 2005 aveva ritrovato a Roma, presso l’Archivio Centrale dello Stato, la deposizione rilasciata il 3 settembre 1945 da Livia Coen. Chiamata, finita la guerra, a riferire sui provvedimenti presi dal Prefetto nei confronti degli appartenenti alla «razza ebraica», e su come essi dovessero a lui la propria salvezza e quella dei loro familiari, la donna aveva confermato quanto scritto da Rocchi nel suo Memoriale.
Grazie ai suggerimenti di Cialini, fu anche possibile il ritrovamento presso l’Archivio storico diocesano di Perugia della lettera con cui Bice Todros Ottolenghi, Albertina, Giuliano e Livia Coen, chiedevano il 23 agosto 1944 all’arcivescovo di farsi interprete della loro gratitudine per il parroco di Isola Maggiore. Nonostante tutto ciò, ancora oggi persiste il racconto della liberazione operata dai partigiani, narrazione perdurante nel tempo per motivi politici che poco hanno a che fare con la storia. Secondo un articolo apparso di recente su un giornale locale, i partigiani, già guardie ausiliarie repubblichine, sarebbero stati protagonisti dell’impresa insieme a don Posta e a un gruppo di pescatori. Sta di fatto che quando il 15 settembre 2011 ebbe luogo la cerimonia di consegna della medaglia di Giusto tra le Nazioni al sacerdote, la dottoressa Livia Links, Consigliere di ambasciata di Israele nel suo discorso mise fine alla questione sostenendo che, riporto le testuali parole, «… don Ottavio Posta fece da mediatore con le autorità fasciste, e riuscì a far liberare gli ebrei detenuti e a farli trasferire dall’altra parte del fronte, sull’altra sponda del lago, con gli alleati, grazie all’aiuto – così si è creduto per anni – di alcuni partigiani del luogo. Negli ultimi anni, invece, grazie alla preziosa iniziativa del dottor Gianfranco Cialini, promotore di questa causa di riconoscimento, – e che approfitto per ringraziare qui oggi pubblicamente, – è emerso che in realtà gli ebrei furono trasportati sull’altra sponda dai pescatori del luogo, che si organizzarono e, assieme a Don Posta, misero a disposizione le loro barche e in pericolo le loro vite, per salvare quelle di molti altri esseri umani».
Altro argomento interessante sono i contatti di Rocchi con alcuni comandanti partigiani, come il monarchico Ernesto Melis e gli slavi comunisti Svetozar Laković e Bodgan Pešić, che furono possibili non soltanto per cercare, da entrambe le parti, di limitare le perdite di vite umane, per la stanchezza che la guerra comportava o per giungere a uno scambio di prigionieri, ma anche per la non sempre facile convivenza all’interno delle bande partigiane tra italiani e slavi e per il desiderio di alcuni tra questi ultimi di rientrare in patria e continuare in Jugoslavia la resistenza.
La cosa non può e non deve meravigliare perché, come scrisse in uno studio sul territorio libero umbro-marchigiano dal settembre 1943 al giugno 1944 Celso Ghini – commissario politico e uomo di punta del PCI, dotato della capacità di una lettura critica della Resistenza – nel groviglio delle contraddizioni di quell’epoca tormentata tutto era possibile. Nonostante alcuni storiografi abbiano ignorato o sorvolato su questi incontri – imbarazzanti in entrambi i campi per i conseguenti, inevitabili sospetti – rimane il fatto che, come spesso accaduto in molti altri contesti bellici, esponenti delle forze contrapposte cercarono un dialogo pervenendo anche al rispetto della parola data e di tregue concordate, seppure per un arco di tempo limitato.
Premettendo che la stesura di questo importante contributo ha richiesto un dialogo fitto con il mondo delle biblioteche e degli archivi, e con fonti primarie inedite (aspetto, questo, sottolineato anche dall’Assessore Leonardo Varasano nella prefazione), in ultima istanza qual è, dal suo punto di vista, il compito dello storico? E come si raggiunge – se mai si riesce a raggiungere – la verità fattuale?
La verità assoluta è per sua natura irraggiungibile. Credo pertanto che uno storico non possa fare altro che cercare di avvicinarsi ad essa il più possibile, con obiettività, mantenendo il necessario distacco dagli eventi oggetto di indagine, mettendo da parte le proprie idee o simpatie politiche, e soprattutto tenendo sempre in considerazione le ragioni e le motivazioni di tutti, vincitori e vinti.
C’è un discrimine, a suo avviso, tra Storia e ideologia? Quanto la seconda informa di sé la prima? Ora il termine ‘ideologia’ ha assunto un significato neutrale e generico, applicabile a qualunque dottrina politica… Quanto l’approccio storiografico evenemenziale (‘macro-Storia’) e quello non evenemenziale (‘micro-Storia’) interagiscono nel suo ultimo libro, tratteggiando il profilo del protagonista?
In merito alla prima domanda credo che le due cose dovrebbero essere tenute separate. Una lettura ideologica, o politica, dei fatti non può che condurre a una verità parziale, sollecitando la tendenza a deformare o comunque modificare in misura variabile gli avvenimenti raccontati. È dunque molto relativa e suscettibile di essere confutata.
Quanto alla seconda domanda le rispondo che nel libro ho cercato di aiutare il lettore a comprendere gli eventi e l’operato del protagonista inserendoli sempre nel contesto spazio-temporale in cui si sono svolti. La micro-storia e la macro-storia devono integrarsi, anche perché allo sviluppo dei fatti contribuiscono, con diversi ruoli e in varia misura sia i singoli individui, i piccoli gruppi e le comunità, sia i grandi personaggi. Entrambe quindi devono contribuire alla rappresentazione globale di un certo periodo storico.
Per quanto riguarda il fascismo, oltre a Mussolini, e al sovrano, e dietro di loro, c’erano i gerarchi, i ministri, gli squadristi e la grande maggioranza degli italiani, fascista più o meno convintamente, inquadrata nelle diverse organizzazioni create dal regime per procurarsi e mantenere il consenso, cosa che fu possibile fino al momento in cui le vicende belliche furono, o apparvero, positive per l’Italia. Certo, ci furono anche degli oppositori che pagarono duramente, talvolta addirittura con la vita, la loro scelta ma costituirono sempre una minoranza. Sostenere che durante il Ventennio il popolo sia stato vittima della dittatura e abbia soltanto subito il fascismo oppressore, significa offendere l’intelligenza degli italiani.
In chiusa, vorremmo chiederle quanto e in quale misura la sua attività di studioso di Storia e la sua professione-docente dialoghino tra loro… È ancora possibile far avvicinare e far appassionare i giovani studenti alla Storia, magari adottando strategie e metodologie didattiche appropriate e mirate?
Il dialogo di cui parla, per quanto mi riguarda, è un colloquio interiore tutto mio, cui talvolta però fa seguito, magari per rispondere ad alcuni interrogativi, il confronto con altre persone interessate alla materia, dalle quali è sempre possibile apprendere qualcosa in più e avere un aiuto nello scioglimento dei dubbi. Per quanto riguarda il mondo della scuola, oggi sono molto pochi gli studenti che hanno passione per la Storia e la studiano non mnemonicamente, o non soltanto mnemonicamente, per interesse proprio, per curiosità, per capire gli avvenimenti del passato cercando di trovare nella conoscenza di questo gli strumenti per leggere e interpretare il presente.
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