Perugia. “Delle volte mi fingo cieca / per scoprire profumi. / Io sono colore, / il vento è struttura (…) / Che colore ha la consuetudine di un cieco?”. Catullo le chiamava “nugae”, cose di poco conto. La scrittrice umbra Costanza Lindi le definisce, invece, “bubbole”. Dal berretto del titolo della sua ultima silloge poetica, la quarta in ordine di pubblicazione, edita nel novembre scorso dalla casa editrice Midgard e in presentazione sabato 12 dicembre, alle 18, all’Umbrò, in via Sant’Ercolano 2, con interventi dell’autrice e dell’editore Fabrizio Bandini,n fuoriescono, però, tutt’altro che corbellerie. È il copricapo del bardo, questo, del giullare di corte, il berretto del folle che si riempie la bocca di corbellerie solo apparenti, che la impasta con cruda verità. Con cinismo, velato di sarcasmo, ironia. “Recitare e sdoppiarsi. Specchiarsi e nascondersi. Dire. Perché è da pazzi raccontare. E perché a volte si vorrebbe essere lì, compiuti, circoscritti e finiti, come la parola nella perfezione del verso”, scrive la poetessa Carla De Falco, nella nota introduttiva alla raccolta. Versi ludici, buffoneschi, intrisi di divertissement, e di malinconia. Di parodia. Un testo riflesso, che smonta i meccanismi della costruzione verbale, rispecchiandoli prima, invertendoli poi, e che, mostrando gli ingranaggi della macchina poetica, opera una devianza rispetto al modello. Ai modelli: “si è trattato di una sorta di ritorno al classico – ha dichiarato l’autrice in una recente intervista –, da Shakespeare a Pirandello. Mi sono divertita con le parole e sono passata dai sonagli alle bubbole. L’immagine del berretto a sonagli, che identifica il giullare di corte, è stata invocata nel titolo. Ho pensato al bubbolo come sinonimo di sonaglio, per poi declinare il termine al plurale femminile, “bubbole”, ovvero sciocchezze, cose apparentemente insulse. Nella libertà della parola: “Ammettiamolo – recita un’altra poesia della Lindi – conserviamo la verità per un giorno in cui ne varrà la pena”. Una libertà, questa della parola, che non è mai separata da un costante esercizio, nella tensione alla novità, alla bellezza, come volevano i trovatori, e neppure dall’applicazione di mnemotecniche, ricorrenti nella letteratura dell’oralità, quando il lettore veniva immerso in situazioni visive facilmente memorizzabili. Un repertorio sterminato di immagini e di loci, che i cantori erano chiamati ad unificare. Anche attraverso il ricorso al pensiero formulaico, come lo intendeva Ong. Tirandolo fuori dal loro berretto a sonagli. Insieme alle bubbole.
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