Alla poesia e alle immagini, al rapporto fra letteratura e nuovi media e all’incidenza di questi nel contemporaneo è stato dedicato l’ultimo seminario del primo semestre del progetto ‘Umbrò Cultura’, nella sala libreria di Umbrò, in via Sant’Ercolano 2, a Perugia. Ne hanno dialogato Franco Buffoni e Guido Mazzoni, che hanno letto dalle raccolte La linea del cielo (Garzanti 2018) e La pura superficie (Donzelli 2017). Franco Buffoni si dedica con continuità alla traduzione, soprattutto dei poeti romantici inglesi, da Keats a Coleridge. Esordisce come poeta su «Paragone» nel 1978 e l’anno successivo esce la sua prima raccolta di versi (Nell’acqua degli occhi). Nel 1984 pubblica il suo primo libro organico di versi, I tre desideri, mentre l’anno successivo insegna a contratto alla Iulm di Milano. Dal 1994 è professore ordinario a Cassino, divenendo direttore del Dipartimento di linguistica e letteratura comparate dello stesso Ateneo. Con Emilio Mattioli e Allen Mandelbaum fonda la rivista «Testo a fronte» (1989), semestrale di teoria e pratica della traduzione letteraria. Si occupa di scrittura in versi, saggistica e traduzione: nel 1987 esce Quaranta a quindici, nel 1991 Scuola di Atene e i primi racconti in versi e le traduzioni dei poeti romantici inglesi (1990), di Kipling (1989), Wilde (1991) e Heaney (1992). La sempre più intensa dedizione alla scrittura in prosa, permessa anche dalla cessazione dell’insegnamento universitario, si oggettiva nell’ultimo decennio in libri in cui dialogano narrazione e parti saggistiche, da Reperto 74 (2007) a Laico alfabeto (2010), ai libri di poesia Noi e loro (2008) e Roma (2009). Nel 2012 Buffoni intensifica la collaborazione con RaiRadio3, e dà alle stampe il suo secondo quaderno di traduzioni, Una piccola tabaccheria, e il romanzo Il servo di Byron. Trasferisce al Centro manoscritti dell’Università di Pavia l’intero archivio cartaceo, con l’epistolario personale e quello della rivista «Testo a fronte», gli avantesti dei libri di poesia, saggistica e narrativa: il Fondo Buffoni è stato integrato nel 2016 dalla cessione al PAV (Pavia Archivio Digitale) anche dell’archivio informatico dell’autore. Dal 2014 è presidente della commissione Micabt per i premi e i contributi alla Traduzione; nello stesso anno pubblica il libro di poesia Jucci, che vince il Premio Viareggio. Nel 2015 escono l’edizione accresciuta del saggio Con il testo a fronte. Indagine sul tradurre e l’essere tradotti e l’antologia in lingua inglese Italian Contemporary Poets. Nel 2017 escono il n. 56 della rivista «Testo a fronte», il Tredicesimo Quaderno Italiano di Poesia Contemporanea – che porta a oltre ottanta il numero dei giovani autori pubblicati nell’arco di 26 anni -, l’opera teatrale Personae e la plaquette Poeti, che anticipa il nuovo libro Codice Verlaine. Guido Mazzoni, invece, insegna letteratura all’Università di Siena e deve la sua fama ai saggi Forma e solitudine (Marcos y Marcos, 2002) e Sulla poesia moderna (il Mulino, 2005). Esordisce come poeta con I mondi (Donzelli, 2010). Le sue prime pubblicazioni di poesie risalgono però ai primi anni Novanta, su riviste: nel 1991 alcune su «Paragone», scelte da Cesare Garboli, e nel 1992 sul terzo dei «Quaderni di Poesia Italiana contemporanea» con il titolo La scomparsa del respiro dopo la caduta. Ha collaborato all’Almanacco dello Specchio della Mondadori e diretto la rivista «Arte poetica». Per Mazzoni «un’industria potente e ramificata ha creato una sorta di nuova cultura umanistica, fatta di film, canzoni, programmi televisivi, che si è affiancata alla prima, l’ha ibridata». «I mondi» sono un’autobiografia per frammenti. Nel sito della Donzelli (https://www.donzelli.it/reviews/1129), si legge: «Ma la vita di cui si parla non è in alcun modo speciale: la mia è una biografia qualsiasi. Il personaggio che dice ‘io’ appartiene alla classe media occidentale; è cresciuto nella periferia di una città europea di medie dimensioni; ha vissuto il conflitto fra desiderio e realtà che è tipico dell’adolescenza, quando gli adulti sono incomprensibili perché rappresentano la vita normale, borghese, chiusa nella sfera del privato e diventata qualcosa, e dunque deludente rispetto al puro desiderio indifferenziato o all’utopia di una trasformazione politica, di cui ho fatto in tempo a vedere il tramonto negli anni dell’infanzia e della prima adolescenza. Il personaggio di questo libro ha poi vissuto il nomadismo spaziale, la precarietà lavorativa e, da ultimo, la precarietà esistenziale caratteristici della mia generazione e delle generazioni che seguono la mia. Si tratta di una poesia in prosa che trasporta, nel territorio della lirica, un discorso di taglio narrativo e saggistico. Questo secondo sguardo allarga il fuoco del libro dalla vicenda autobiografica al mondo sociale e naturale in cui l’io si trova incluso. Benché la distinzione non sia rigida, poesia e prosa corrispondono, più o meno, a queste due ottiche diverse. Nel volume colpisce subito lo stile. Ho cercato di raccontare il presente in un linguaggio neutro e classico. Volevo rappresentare la contingenza in uno stile che tentasse di trascenderla». Nel 2015, inoltre, per Laterza pubblica I destini generali. È tra i fondatori del sito culturale «Le parole e le cose».
Un canto, quello di Mazzoni, e un contro-canto, quello di Buffoni. Il primo legge da La pura superficie: ‘Uscire. Esce di casa per una ragione, la dimentica (…). Dice donna tatuata per non vedere la donna tatuata. Da qualche anno le cose gli vengono addosso (…). Mi interessano più le pause fra le parole (…). Le immagini fuori di noi. Immagini che escono fuori di noi, anche se in mezzo c’è una linea di sutura, quando lo sguardo esce dal corpo (…) ogni giorno sulla pura superficie (…). Chi dice io non ha corpo, vede soltanto le proprie mani, come protesi. È osceno essere esposto, essere una cosa. La seconda superficie è la percezione, un piano di realtà semplificato, un sogno. La terza superficie è il linguaggio, le sue astrazioni. La quarta è l’immagine interna degli altri, il loro peso immenso, il loro campo. I discorsi di superficie, le parole in contatto. I discorsi che escono dal cellulare. L’unico che esiste veramente è il soggetto. No aderiamo a nulla, siamo la parte che manca al nostro mondo, un luogo inabitato’. Per Mazzoni, il rapporto fra poesia e immagini è un rapporto strutturale, sempre più importante. Anche Instagram, per lui, è un’esperienza nuova, fatta di immagini, del medium della fotografia, rispetto al quale si reputa un dilettante. Ciò che a lui interessa è che questa dimensione trovi corpo e forma, in quanto strutturale nei suoi testi. Il primo livello è quello di superficie ed è sociologico: siamo immersi in una cultura che ha fatto dell’immagine una cultura sociale. Anche le svolte politiche sono legate all’immagine: ne è un esempio, l’11 settembre, un attentato organizzato come fosse una performance. Nell’ultimo libro di Mazzoni, si legge una poesia dedicata all’11 settembre, un testo dedicato a un video dell’Isis che, negli ultimi anni, in molti hanno visto circolare in rete. Il secondo livello, invece, è quello cui due dei tre testi letti da Mazzoni fanno riferimento e che circoscrivono una modalità ontologica. ‘Sono colpito dalla distanza fra la nostra vita interna e la nostra vita esterna: siamo esseri psichici – ha affermato -: colui che dice ‘io’ percepisce la propria vita interna sotto forma di psichismi e di parole, mentre gli altri sono quelli che vediamo, che decifriamo attraverso la superficie e le immagini. Il mediatore del passaggio fra intimo e non intimo è l’immagine, e questo è un passaggio ontologico. La fotografia viene prima ancora della parola, è il contrario dell’intimità. C’è un mio testo – ha proseguito Mazzoni – che fa riferimento all’uso sociale delle immagini e che si intitola Sedici soldati siriani: ‘ma l’Isis nel sonno ha decapitato sedici soldati siriani (…)’. Questa poesia è scritta in prosa: non c’è più alcuna differenza, secondo me, fra poesia e prosa. Ecco, in questa poesia in prosa il lui di cui si parla viene sorpreso, mentre fa colazione, dal video dell’Isis: questo video genera una serie di effetti e i collegamenti avvengono per associazioni di idee, secondo una logica simmetrica, non narrativa, basata su un montaggio non spiegato. Le immagini sono ostensive, e non assertive: le immagini dicono ‘è così’, ‘ecco qua, guarda’, come affermava Barthes ne La camera chiara. L’interpretazione dell’immagine è affidata a chi la guarda. La fotografia sfugge al controllo di chi l’ha scattata, alla sua intenzione. L’elemento dell’inconscio è molto presente in ciò che l’immagine ci suscita: le immagini ci aggrediscono, ad esempio al cinema, perché lì esse sono inevitabili’.
Franco Buffoni, nel suo controcanto a Mazzoni e nelle sue riflessioni sul binomio, inestricabile, poesia e immagini, si è immedesimato in quanto emerso dall’ultimo libro di Buffoni. Ne La linea del cielo, infatti, si legge un testo sull’Isis: ‘quando alla luna dici le preghiere non ti accontenti di nuvole (…), chiedi fatti concreti, miracoli scendenti come birra analcolica, a salvarti dal tramonto di domani (…) e oggi, 11 settembre, in via 20 settembre a Roma ho incontrato un gruppo di seminaristi pakistani’. ‘Chi dice ‘io’ in poesia?’, si è chiesto Buffoni, riflettendo sul fatto che in alcuni suoi libri l’io in questione debordi, mentre in altri non esista, semplicemente perché lì non necessitava dell’io lirico narrante. Ma il lirismo, se c’è, non è ‘una malattia infettiva’. Come nel caso della lode al limestone (una pietra calcarea): ‘quando cerco di immaginarmi un amore puro, o la vita che verrà, ciò che odo è il mormorio di correnti sotterranee. Ciò che vedo è un paesaggio di pietra calcarea’. Questa cosa per Buffoni è l’immagine, in quella determinata circostanza. Ma le immagini possono essere anche delle condanne. ‘Una volta – ha raccontato Buffoni – Guido Mazzoni mi disse che al posto di Irene Pivetti sarebbe potuta essere eletta Ambra come presidente della Camera nel lontano 1994. Ogni volta che passo davanti alla Camera dei deputati – ha proseguito – penso a questa immagine, che è, appunto, una condanna. Questo per dire che anch’io amo molto pensare alle immagini, per esempio a quelle di copertina, in cui il concetto di ritmo si sposa a quello dell’immagine stessa, nella sua essenza. Il politico è come l’armadio che si apre: si vede la storia, ma l’armadio può anche richiudersi’.
Eppure, quell’immagine può rimanere una condanna. E l’Aretino può continuare ad ammirare il suo ‘Raffaello mutolo’. Nell’eloquenza dell’immagine poetica.
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